DIVAGAZIONI VENEZIANE - OPINIONI, PENSIERI, RIFLESSIONI...E ALTRO
DI UN VENEZIANO DOC
Cari amici,
siete cordialmente invitati a partecipare alla presentazione del mio libro: "Le Nozze Lagunari - 8 racconti" che si terrà a Venezia mercoledì 26 novembre alle ore 17,30 presso la Scoleta dei Calegheri in Campo S. Tomà.
Un commento sarà tenuto da Daria Perocco Prof. di Letteratura Italiana presso l'Università di Ca' Foscari e dall'artista Nadia Kuprina che ha eseguito le illustrazioni dei racconti.
Con il piacere di incontrarvi vi invio un affettuoso saluto. Enrico Ricciardi
Il caso Venezi raccontato senza troppa politica 14 Novembre 2025
di Alessandro Zilli
L'adagio di Barber non è una gara per ammazzamosche
Riceviamo e pubblichiamo la lettera del prof. Alessandro Zilli in merito ad alcuni aspetti della protesta dei musicisti dei teatri italiani dopo la nomina della direttrice musicale del Teatro La Fenice
L'adagio di Barber non è una gara per ammazzamosche impariamo insieme a leggere un curriculum: il caso Venezi raccontato senza troppa politica
C’è una scena ormai ricorrente in questa storia, basta sollevare un’obiezione minimamente tecnica sulla nomina di Beatrice Venezi a Direttore Musicale della Fenice perché, come un riflesso pavloviano, spuntino le due etichette salvifiche, misoginia e comunismo. Se non ti entusiasmi per il curriculum della signora, dev’essere per forza perché odi le donne, la destra, la patria, il presepe e forse anche il panettone, il fatto che tu sappia distinguere un direttore ospite da un Direttore Musicale, invece, è irrilevante, dettaglio elitario, roba da caste culturali da guardare con sospetto.
Peccato che, in mezzo a questa nebbia ideologica, la realtà sia molto più prosaica e anche piuttosto imbarazzante per i suoi difensori. A contestare la nomina non è un collettivo di soviet nostalgici, ma l’orchestra e i lavoratori della Fenice, cioè quelle persone che in quel teatro ci lavorano davvero, tutti i giorni, da anni, e che hanno messo per iscritto che il curriculum della neo direttrice non è minimamente paragonabile a quello delle grandi bacchette che hanno ricoperto in passato quel ruolo. Intorno a loro, nel giro di poche settimane, si sono schierate le rappresentanze sindacali e le maestranze di praticamente tutti i principali enti lirici italiani, dalla Scala al Regio di Torino, dal Comunale di Bologna all’Arena di Verona, dal Maggio Fiorentino al Verdi di Trieste, che hanno mandato delegazioni a Venezia, partecipato ai cortei, firmato comunicati unitari, sostenendo apertamente due cose, artisticamente, la critica è rivolta all’inadeguatezza del profilo di Venezi rispetto al ruolo, politicamente, il bersaglio è il sovrintendente che quella nomina l’ha imposta ignorando prassi, trasparenza e confronto con chi in teatro ci lavora davvero.
Quando il sovrintendente ha tirato fuori l’alibi del sessismo, le rappresentanze sindacali gli hanno risposto, nero su bianco, che le accuse di sessismo erano infondate e offensive, la contestazione è artistica e procedurale, non di genere, e questa volta è quasi comico dover ricordare un’ovvietà che chiunque frequenti un teatro vede con i propri occhi, nelle orchestre ci sono moltissime donne, ci sono prime parti donne, spalle donne, maestre del coro, direttrici di scena, tecniche, manager, gente che in quel mondo si è fatta strada con decenni di studio, prove, audizioni, concorsi, non di ospitate in tv. Pensare che tutto questo fronte, fatto di colleghi e colleghe che conoscono il mestiere, si muova spinto da odio verso una donna perché è donna è una cretinata pazzesca, oltre che un insulto alle stesse musiciste che hanno firmato e sostenuto quelle prese di posizione.
Come se non bastasse il teorema della misoginia, alla discussione si è aggiunta una trovata ancora più surreale, quella secondo cui gli orchestrali andrebbero licenziati in blocco e riselezionati, puniti per essersi permessi di contestare una scelta calata dall’alto. Qui non siamo nemmeno più al livello dell’opinione discutibile, siamo al grado zero della conoscenza di come funziona un ente lirico. Chi parla così non ha la minima idea di quali siano i percorsi per accedere a un’orchestra stabile, non sa che l’ingresso passa attraverso anni di studio durissimo, concorsi con programmi spaventosi, audizioni dietro il paravento, periodi di prova in cui ogni prova e ogni recita sono un esame davanti ai colleghi. Questi famosi dipendenti ci arrivano dopo aver investito una vita intera, energie, denaro, salute, e la soluzione geniale sarebbe azzerare tutto perché hanno espresso un dissenso artistico. Per di più, la barzelletta del licenziamoli tutti e rifacciamo le selezioni è anche logisticamente ridicola, significherebbe bloccare l’attività del teatro per anni, rifare concorsi per ogni scranno, distruggere la continuità sonora e la memoria collettiva dell’orchestra, che sono proprio ciò che dà identità a un ente lirico. Un’orchestra non è un sacchetto di ceci da svuotare e riempire, è un organismo che si costruisce nel tempo, e smontarlo per ripicca ideologica è il gesto del bambino che rompe il giocattolo perché non fa il rumore che vuole lui.
Su questo terreno prospera anche un’altra perla di ignoranza, quella che divide il mondo in dipendenti e dirigenti aziendali, relegando gli orchestrali alla categoria dei semplici impiegati subordinati e attribuendo al Direttore Musicale lo status di dirigente in senso padronale, come se stessimo parlando di un capo del personale che può zittire la manovalanza. È una caricatura grottesca. In un ente lirico il Direttore Musicale è, o dovrebbe essere, il primo tra pari sul piano artistico, non il caporeparto della catena di montaggio. Non assume, non licenzia, non firma le buste paga, non è il direttore del personale travestito da direttore d’orchestra, è un musicista chiamato a guidare un progetto insieme a un’orchestra che esiste prima di lui e continuerà a esistere dopo di lui, se il teatro sopravvive. Pensare che gli orchestrali debbano tacere perché sono dipendenti mentre lui sarebbe una specie di manager da azienda multinazionale è come paragonare un nostromo, che conosce ogni scricchiolio della nave, a un ammaestratore di tigri, o una caposarta che cuce abiti di alta sartoria a una capoturno in una fabbrica di Bangkok, universi diversi spacciati per ruoli sovrapponibili solo da chi non ha mai messo piede né in un teatro né in una sala prove.
Dunque, di che cosa stiamo parlando, parliamo di una questione molto semplice e molto tecnica, che cosa deve avere alle spalle, in termini di mestiere, chi viene chiamato a fare il Direttore Musicale di uno dei teatri d’opera più importanti del mondo, e, di conseguenza, che cosa non c’è nel curriculum di Beatrice Venezi.
Conviene partire da un punto che sembra sfuggire a molti commentatori entusiasti, il Direttore Musicale non è il simpatico ospite che sale sul podio per due serate fotografiche con star televisive, è la figura che guida la linea artistica del teatro, costruisce il repertorio, lavora stabilmente con orchestra e coro, tiene insieme la coerenza stilistica delle produzioni, rappresenta il teatro sulle grandi piazze internazionali. È un ruolo che si fonda sulla continuità, non sulle comparse, ed è un mestiere che, ovunque, si guadagna sul campo, con decine di titoli d’opera affrontati, centinaia di recite, stagioni intere portate sulle spalle, magari in più teatri e con orchestre diverse.
Se si apre il curriculum ufficiale di Beatrice Venezi, quello che viene citato compiaciuto anche dagli articoli a lei favorevoli, si legge che vanta all’attivo oltre centosessanta concerti sinfonici e oltre quaranta recite di opere liriche. A colpo d’occhio, a chi non frequenta i teatri, può persino suonare importante, per chi conosce il settore, invece, è esattamente il contrario, sono numeri da carriera ancora giovane e in piena costruzione, non da figura che viene messa a capo di una macchina teatrale complessa come la Fenice. Quaranta recite d’opera, se togli qualche replica in più su una produzione, equivalgono a una manciata di titoli in tutta la vita professionale, un Direttore Musicale di un grande teatro, solo in un triennio di incarico stabile, spesso accumula più recite di quante Venezi dichiari in tutto il suo percorso, senza bisogno di tirare in ballo i mostri sacri, basta guardare a figure come Nicola Luisotti o Alejo Pérez, che arrivano a incarichi equivalenti dopo aver diretto stagioni su stagioni in teatri come San Francisco, Vienna, Madrid, Buenos Aires, Dresda, Parigi, con repertori sterminati e carichi di responsabilità già sostenuti.
La difesa standard, a questo punto, è sempre la stessa, ma come, ha diretto in tre continenti, in Russia, Giappone, Argentina, Francia, ha un percorso artistico di tutto rispetto, dicono gli articoli che la sostengono, citando diligentemente sempre quegli stessi centosessanta concerti e quaranta recite. È il trucco retorico del curriculum gonfiato per latitudine, se non puoi impressionare per profondità, prova almeno con la geografia, è il classico effetto tombola diplomatica, metti in fila più nomi di Paesi possibile, meglio se su tre continenti, e speri che nessuno vada a guardare che tipo di produzioni erano, con quali orchestre, in quali teatri e con quale continuità.
Quando però qualcuno si prende la briga di leggere davvero, la fotografia cambia. Nelle biografie compaiono festival e teatri medi, qualche debutto isolato in sedi più prestigiose, produzioni singole al Colón di Buenos Aires, a Metz, a Trieste, qualche stagione da direttore principale o ospite in compagini di buon livello ma non certo di fascia altissima, nessuna storia di lungo corso con un grande teatro di serie A, nessun rapporto strutturale con un’orchestra di primissima fascia, nessuna stagione intera costruita mattone su mattone in un grande ente lirico. Le cronache internazionali che raccontano la protesta ricordano proprio questo, il sospetto, nemmeno troppo velato, che la nomina alla Fenice sia trascinata più dal vento politico che da un irresistibile curriculum musicale.
Il capitolo argentino, da questo punto di vista, è quasi da manuale. Nel duemilaventiquattro il Teatro Colón le affida il ruolo di principal guest o resident guest, con Turandot e Un ballo in maschera in rapida successione e nuove produzioni in cartellone, operazione annunciata come grande apertura al talento italiano.
Poco dopo, però, arrivano le inchieste italiane e gli articoli argentini che raccontano un retroscena ben meno edificante, secondo queste ricostruzioni l’ambasciata italiana avrebbe scritto al Colón una lettera di presentazione in cui si spiegava che Venezi era amica della premier Giorgia Meloni, oltre che consigliera del ministro della Cultura, e si sollecitava la sua nomina a direttrice ospite principale, una dinamica che ha innescato interrogazioni parlamentari in Italia e imbarazzi non da poco a Buenos Aires, dove nessuno ama apparire come terminale di raccomandazioni politiche straniere.
Nel frattempo lo stesso Colón annuncia Alejo Pérez come futuro direttore titolare dell’Orquesta Estable dal duemilaventisei, un musicista che ha diretto di tutto, da Wagner a Prokof’ev, in mezza Europa e nelle grandi case americane, mentre il ruolo di Venezi viene presentato, a seconda delle fonti, come collaborazione di lungo periodo o come posizione forse destinata a chiudersi a fine anno.
Il risultato è che l’operazione Colón, nata come vetrina internazionale ampiamente spinta dal nostro governo e dalla nostra diplomazia, è diventata un boomerang di immagine, e che, qualunque sia la configurazione finale dei ruoli, il teatro argentino si trova ora a gestire una partita in cui ogni mossa sarà letta anche come presa di distanza dal sospetto di nepotismo e amichettismo internazionale che le rivelazioni italiane hanno acceso.
Come se non bastasse, è arrivata pure la notizia che la vicenda veneziana rischia di esportare il proprio grottesco qualche centinaio di chilometri più a est. In Friuli Venezia Giulia si parla apertamente dell’ipotesi di spostare il problema da Venezia a Trieste, cioè di trovare a Venezi una qualche forma di sistemazione al Teatro Verdi, raccontata come manovrina politica per dare il contentino a qualcuno, forse più a chi siede nelle stanze del potere che non alla diretta interessata, pur di non ammettere che la scelta originaria è stata sbagliata fin dall’inizio. L’idea che si possa usare un teatro d’opera come discarica di lusso dove parcheggiare gli effetti collaterali di una nomina sbagliata è, di per sé, il miglior commento possibile sul livello del dibattito.
Qui arriviamo a un altro punto che i suoi difensori sembrano non riuscire a cogliere, nel curriculum il fulcro non è quante volte sei comparso accanto a Plácido Domingo o Andrea Bocelli, ma la continuità di lavoro con le istituzioni musicali. E a questo proposito conviene essere chiari. Andrea Bocelli non è un cantante lirico, è un tenore pop, crossover, amatissimo dal grande pubblico, che canta prevalentemente microfonato e in contesti che nulla hanno a che fare con la normale vita di un teatro d’opera, tirarlo fuori come prova della statura lirica di una direttrice significa, semplicemente, non sapere di che cosa si sta parlando. Plácido Domingo, che è stato un gigante della storia dell’opera, è oggi in piena fase crepuscolare, le sue apparizioni sono puro revival, celebrazione di una carriera straordinaria e operazione di marketing, non è certo scritturato per l’attuale qualità vocale, ma perché il suo nome attira denaro, sponsor, biglietti venduti, e con essi una certa aura di grande evento, non necessariamente una garanzia di qualità artistica delle produzioni in cui compare. Usare un gala con Domingo o un concerto con Bocelli come credenziale per un incarico di Direttore Musicale significa confondere, in modo imbarazzante, la logica del botteghino con quella della direzione artistica.
A rendere il quadro ancora più grottesco, c’è poi il capitolo dei piccoli ensemble. In rete circolano, e in parte circolavano più di quanto non accada oggi, video in cui Venezi viene presentata come direttrice di quartetti d’archi o di minuscoli ensemble cameristici, in contesti corporate o istituzionali, per esempio un “string quartet performance directed by Beatrice Venezi” in un seminario di leadership, oppure l’evento Replica Valcucine con il Mitja String Quartet accompagnato da lei sul podio.
Ora, chiunque abbia fatto un minimo di musica sa che il quartetto d’archi, per definizione, si dirige da solo, vive proprio di quella microdemocrazia interna fra i quattro musicisti che respirano insieme e si ascoltano in tempo reale, piazzare davanti un direttore che agita le braccia, per quanto elegantemente, è un’operazione che tecnicamente non ha alcun senso, se non quello di trasformare un organismo raffinato in sfondo per una figura carismatica da riprendere in video. Il dettaglio divertente, si fa per dire, è che molti hanno notato come alcuni di questi filmati siano diventati nel tempo meno facili da reperire su determinati canali, segno che qualcuno deve essersi accorto dell’effetto boomerang, e abbia ritenuto opportuno, dove possibile, ripulire almeno un po’ la vetrina digitale. Purtroppo per chi ha avuto questa brillante idea, parecchi utenti li avevano già salvati e condivisi, e queste perle continuano a riemergere qua e là, come promemoria vivente del livello a cui può scendere la spettacolarizzazione del ruolo del direttore quando l’immagine conta più della sostanza. Il solo fatto che si senta il bisogno di mettere la sordina al proprio passato video, se davvero è così, è già abbastanza eloquente.Il repertorio, quello vero, si costruisce in buca, con le prove stancanti in cui non ci sono telecamere, con i recitativi da rimettere insieme, con le recite venute male da analizzare la mattina dopo, con le tournée faticose in cui porti il tuo teatro in giro per il mondo, con i titoli difficili affrontati e riaffrontati nel corso degli anni, tutto ciò, nel curriculum di Venezi, semplicemente non c’è, o è presente in forma embrionale, mentre la parte più appariscente del suo percorso recente è fatta di ruoli istituzionali, presenza mediatica, operazioni di immagine.L’elenco degli incarichi è eloquente proprio per quello che manca, direttore principale di Milano Classica, direttore principale ospite dell’Orchestra della Toscana, direttore artistico di Taormina Arte, assistant conductor della State Orchestra of Armenia, direttore principale dell’Orchestra Scarlatti Young, tutte posizioni assolutamente rispettabili, ma nessuna che comporti le responsabilità strutturali, gestionali e artistiche di un Direttore Musicale in un grande teatro d’opera. La Fenice, piaccia o no, è il primo caso nella sua carriera in cui le viene affidato formalmente questo ruolo, in altre parole, il teatro veneziano non sta scegliendo una figura già rodata in quel mestiere, sta trasformando il teatro stesso in laboratorio per la sua crescita, scelta legittima, se dichiarata come tale, ma in totale controtendenza rispetto alla storia e al blasone della casa, tanto più se nel frattempo l’intero sistema lirico nazionale, con le sue orchestre e i suoi lavoratori, si schiera a fianco delle rappresentanze sindacali veneziane chiedendo non solo il ritiro della nomina, ma anche le dimissioni del sovrintendente.
È a questo punto che entra in scena la vera comicità della vicenda, invece di rispondere nel merito, molti difensori preferiscono buttare il tavolo con l’argomento più facile, quello ideologico. Chi solleva dubbi sull’adeguatezza del curriculum viene bollato come misogino, o come appartenente a una misteriosa setta di compagni che odiano tutto ciò che non è di sinistra, gli editoriali indignati non spiegano perché quaranta recite dovrebbero bastare per guidare la Fenice, spiegano invece che è tutto un complotto della sinistra rancorosa contro una donna giovane e di destra, con variazioni sul tema del politicamente corretto capovolto, in cui chiunque osi criticare una nomina decisa dal governo diventa automaticamente un odiatore.
Peccato che l’immagine del plotone di comunisti sessisti non coincida affatto con la realtà delle voci critiche. A protestare sono i professori dell’orchestra, i lavoratori del teatro, direttori e musicisti che lavorano in tutta Italia, con un sostegno pubblico dichiarato dai maggiori teatri lirici del Paese, tra cui una quantità enorme di colleghe donne, prime parti donne, soliste e direttrici, tutte improvvisamente arruolate nell’esercito della misoginia, l’idea che queste professioniste, che hanno passato la vita a farsi strada in ambienti molto meno teneri di un talk show, siano mosse da odio verso una donna per il solo fatto che è donna è, di nuovo, una cretinata pazzesca, oltre che un insulto alla loro intelligenza e al loro vissuto.
La verità è che l’accusa di misoginia e di comunismo è una scorciatoia comoda per chi non ha gli strumenti per discutere il merito. Per leggere un curriculum artistico bisogna sapere che differenza passa tra un incarico stabile e una ospitata, tra una produzione d’opera e un concerto celebrativo, tra una stagione costruita e un singolo ingaggio mediatico, bisogna avere un’idea di che cosa significhi stare per anni in buca, lavorare con registi diversi, affrontare titoli di repertorio e partiture complesse. Molti difensori militanti, purtroppo, non hanno voglia né capacità di entrare in questo terreno, è molto più facile urlare sessismo o compagni e chiuderla lì, dall’alto di una beata ignoranza musicale.
Che poi ci siano stati, in mezzo alle migliaia di commenti social, insulti personali, volgarità e vere e proprie schifezze è tristemente ovvio, si trova di tutto, su internet, contro chiunque, ma confondere il fango anonimo dei social con una critica argomentata di orchestrali, direttori, sovrintendenti, lavoratori dello spettacolo ed esperti significa fare un’operazione intellettualmente disonesta, il livello più basso va condannato senza esitazione, il dissenso competente, invece, va ascoltato, anche quando mette a disagio chi si è già affezionato alla narrazione comoda della donna coraggiosa assediata dai comunisti misogini.
Alla fine, la domanda è brutale e insieme semplicissima, se al posto di Beatrice Venezi, con esattamente lo stesso curriculum, centosessanta concerti, quaranta recite, nessuna esperienza pregressa come Direttore Musicale in un grande teatro, ci fosse un uomo di trentacinque anni, sconosciuto ai media, privo di agganci politici, qualcuno lo avrebbe mai preso in considerazione per guidare la Fenice, è difficile non sorridere, amaramente, di fronte alla risposta.
In questo senso il paradosso è quasi perfetto, chi grida al sessismo per difenderla è spesso il primo a cancellare il criterio fondamentale del merito professionale, come se a una donna non si potesse chiedere lo stesso livello di curriculum che si pretenderebbe da un collega uomo per la stessa poltrona, chi brandisce la paura dei comunisti è spesso il meno attrezzato a discutere seriamente di repertori, organici, tradizioni esecutive, responsabilità di un teatro d’opera, il risultato è una discussione pubblica deformata, in cui chi conosce il mestiere viene dipinto come un nemico ideologico, e chi non sa distinguere un gala da una produzione d’opera si arroga il diritto di dare patenti di competenza.
Resta però un punto fermo, che nessun gioco di specchi può cancellare, prima della nomina alla Fenice l’esperienza di Beatrice Venezi come Direttore Musicale di un grande teatro lirico è pari a zero, il numero di recite d’opera che ha alle spalle è quello di una carriera ancora in fase di crescita, la sua presenza sui grandi palchi del mondo è fatta più di apparizioni episodiche, compresi gala con Bocelli che non è un cantante lirico e passerelle con Domingo in versione revival, con in mezzo persino l’aspirazione a dirigere quartetti d’archi che per definizione si dirigono da soli, che di stagioni strutturate e lavoro quotidiano in teatro, tutto il resto è propaganda.
Se lo faccio notare non è perché sono misogino, né perché io sia un nostalgico del Muro di Berlino, è, semplicemente per mia vocazione di divulgatore musicale e perché so leggere un curriculum. E aggiungo che non mi sento un fallito perché non dirigo un'orchestra o non faccio il violinista di professione sebbene abbia conseguito il relativo diploma. La mia mission è nell'insegnamento della mia materia che comprende anche l'educazione all'ascolto...
Ad majora
prof. Alessandro Zilli, umile tecnico della produzione musicale e docente di musica nella scuola secondaria
50 ANNI FA MORIVA PIER PAOLO PASOLINI-2 novembre 1975
Cari Amici
il giorno 2 novembre di quest’anno ricorrono i 50 anni della morte di Pier Paolo Pasolini.
Vent’anni fa ho scritto un Ricordo Scenico per la ricorrenza dei 30 anni, presentato all’Auditorium S.ta Margherita con l’interpretazione di Mario Bardella, una delle più belle voci teatrali e di sua moglie Gabriella Genta, una delle grandi doppiatrici del cinema italiano.
Per la ricorrenza dei 40 anni sono stato ospite del Teatro Goldoni e volevo riproporlo anche questa volta per il nuovo anniversario ma, purtroppo, i tempi sono mutati e l’accesso agli spazi della cultura sono diventati o troppo onerosi, o troppo impegnati, o, quel che è peggio, indifferenti al nome di Pier Paolo Pasolini.
Tuttavia, dopo aver bussato alle porte dell’Ateneo Veneto, al Centro Culturale Candiani, Alla Biblioteca Querini Stampalia, all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere e Arti, al Comune di Venezia e ad una Galleria d’Arte cittadina, tutti spazi con possibilità tecniche per una nuova rappresentazione con due attori, desidero in qualche modo non mancare al Ricordo di questo grande personaggio della letteratura venuto a mancare in maniera tragica e straziante.
L’originaria presentazione di 20 anni fa all’Auditorium S.ta Margherita ha avuto il merito di essere registrata con un risultato accettabile per essere nuovamente riproposta e rivista tramite un computer o un televisore.
Agli amici interessati che me ne faranno richiesta, invierò il file di questo RICORDO multimediale che si snoda sia attraverso la narrazione dei due attori citati, ma anche con l’apporto di documentazioni visive e sonore.
Fare la richiesta via mail a: enrianni1@gmail.com
Con amicizia.
Enrico Ricciardi
Articolo ottobre 2025
L’OPERA IN PRECIPIZIO!
Il Teatro la Fenice in piena burrasca per la nomina del Direttore Musicale